Italpizza, colosso delle pizze surgelate, replica al nostro articolo ‘Italpizza, il Made in Italy indigesto’. Ove abbiamo stigmatizzato l’impiego, in produzione, dei lavoratori forniti da cooperative appaltatrici. A seguire, le repliche dell’industria modenese e alcune brevi considerazioni generali dell’avvocato Luigi Corrias, giuslavorista.
Non un’industria di pizze surgelate ma ‘una pizzeria industriale‘, la replica di Italpizza
Italpizza difende, come è ovvio, la sua politica di gestione delle risorse umane. Adducendo che essa non rappresenti una forma di concorrenza sleale nei confronti dei competitor i quali invece si avvalgano di dipendenti propri, assunti con il contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) dell’industria alimentare. Con il sistema degli appalti a cooperative che forniscono stabilmente manodopera, precisa Italpizza, ‘non c’è stato alcun illecito vantaggio da parte nostra ma solamente il ricorso legittimo agli strumenti previsti dalla norme vigenti‘.
L’azienda modenese precisa inoltre che ‘Italpizza non è una industria di pizze surgelate, ma un pizzeria industriale. A differenza dei principali competitor, non ha un processo totalmente industriale, ma semi-artigianale. La lavorazione delle materie prime avviene all’interno; 24h di lievitazione dell’impasto; stenditura dell’impasto a mano; cottura a forno a legna; farcitura manuale che consente di offrire una gamma di oltre 800 ricette diverse. A parità di volume d’affari, rispetto al processo totalmente industriale, ciò comporta un impiego maggiore di circa due terzi di forza lavoro‘.
‘Nessun dumping salariale’, secondo Italpizza
Quanto a ‘eventuali vantaggi nell’applicare il contratto d’appalto/cooperative rispetto ad altri competitor, meglio detto dumping salariale’, Italpizza sostiene che ‘l’applicazione di un contratto di appalto in ambito lavorativo non può portare vantaggio esclusivo a un competitor rispetto agli altri, in quanto ogni competitor ha anch’esso la facoltà di poterlo applicare. Cosa diversa se un competitor utilizza una cooperativa ‘spuria’ la quale, nella illegalità riesce a praticare condizioni di costo del lavoro inferiori rispetto al mercato.
L’applicazione di contratti di lavoro diversi dal settore di riferimento del prodotto sono possibili in quanto il dato da prendere come riferimento non è il prodotto, ma le mansioni prevalenti svolte dalla forza lavoro nel processo produttivo.
Ciò non rappresenta un ‘vulnus’, la legislazione lascia libertà all’imprenditore di stabilire quali condizioni economiche applicare, purché siano congrue rispetto alle mansioni svolte e alle esigenze del mantenimento della famiglia, senza così imporre l’applicazione di un CCNL.
Il caso FCA (ex FIAT) è il più rappresentativo. Pertanto qualsiasi competitor ha la facoltà di poter decidere se e quale CCNL applicare, senza nemmeno dover passare da un Contratto d’appalto/Cooperativa. Il ricorso a tale modalità, è funzionale per ottenere maggiore flessibilità e pertanto efficienze organizzative‘.
CCNL, diseguaglianze e diritti dei lavoratori. L’analisi dell’avvocato Luigi Corrias
Il caso Italpizza introduce un tema di ampia portata su CCNL, diseguaglianze e diritti dei lavoratori. Un tema purtroppo sottovalutato da molti, sul quale abbiamo raccolto i commenti di Luigi Corrias, avvocato giuslavorista del Foro di Milano. Le sue considerazioni di cui a seguire hanno carattere generale, in difetto della documentazione necessaria ad approfondire il caso specifico.
‘Il terreno principale per la compressione dei diritti e la sottotutela dei lavoratori è oggi costituito dai processi di scomposizione dell’impresa all’interno delle catene produttive e la sua frammentazione organizzativa, resa agevole dalle norme introdotte nell’ordinamento in materia di esternalizzazioni ed internalizzazioni (appalti di servizi, subappalti, lavoro in cooperativa, etc.).
Le imprese, attraverso una serie di modelli organizzativi e contrattuali, possono così organizzare e disporre di manodopera che formalmente dipende da terzi – o delegare a terzi fasi del suo processo produttivo – senza assumere il rischio né la responsabilità tipici del ‘fare impresa’, primo fra tutti la responsabilità del datore di lavoro.
Questa fattispecie si realizza, generalmente, attraverso la fornitura di manodopera da parte di una impresa che non è autorizzata allo svolgimento della somministrazione e lo ‘stratagemma’ utilizzato per coprire la fornitura è quello di stipulare un contratto di appalto, sapientemente redatto e all’occorrenza anche certificato. Che in genere ha per oggetto i servizi e quasi sempre, come interlocutore, una cooperativa.
Tutto ciò non sarebbe mai potuto accadere se non fosse stata eliminata, a monte, la regola della parità di trattamento e della solidarietà del committente (in vigore fin dal 1960) per i c.d. ‘appalti interni’. La regola egualitaria – secondo la quale a lavoro eguale deve poter corrispondere un eguale corredo di diritti, a cominciare da quello retributivo – è stata invece infranta dal d.lgs 276/2003, art.29. E il sistema sanzionatorio è stato di recente attenuato, con la depenalizzazione del reato di appalto illecito di manodopera, ora punito con la sola pena amministrativa.
Succede così sempre più spesso che lavoratori che operano fianco a fianco, condividendo le stesse mansioni, abbiano condizioni retributive e normative molto differenti, con possibili abusi, la cui correzione è resa difficile dalla citata ‘evoluzione’ (o meglio, involuzione) normativa.
Dinanzi alla situazione critica che è stata fin qui descritta, il compito per coloro che intendono combattere disuguaglianze, precarietà e disoccupazione, rimane quello di coniugare alla profondità della analisi, il coraggio della denuncia e della critica. Senza cedere alla rassegnazione di considerare la situazione in atto come un dato immodificabile, su cui non sia possibile alcun intervento regolativo (anche da parte della giurisprudenza) per invertire il trend che sempre più caratterizza, oggi, l’economia e l’impresa.’
Marta Strinati e Dario Dongo